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In Italia non esisteva una vera e propria scena rock, fortemente radicata : c’erano i cantautori, la canzone nazionalpopolare (le canzonette se preferite), la fase del progressive italiano era ormai esaurita, e comunque non fondava la sua radici su un corpo sociale emarginato. All’estero era già esploso il Punk. Lì siamo arrivati noi, fuori dai centri musicali canonici (Roma e Milano) con un approccio che identificava la creatività ‘tout court’ come elemento decisivo per insinuarsi nel mercato e provare a disturbarne i ben oliati meccanismi, con tutte le sue regole e limitazioni. E non eravamo lì per caso. Siamo stati il detonatore indispensabile per sprigionare energie latenti, cortocircuitare sinapsi, accelerare processi, dando spazio e visibilità a quante più realtà musicali possibili, applicando criteri di selezione basati sull’espressività e sulla personalità piuttosto che sulla tecnica e sulla commerciabilità, favorendo una crescita collettiva di sistema: pluralità e non monopolio, autonomia e non controllo, diversità e non omogeneità. Aperti, trasparenti, disincantati, voracemente curiosi. E da lì in breve, come un virus benevolo e un po’ impertinente, Firenze, Milano, Pordenone, Torino, Roma, sono contagiate. Il momento era quello giusto per provare a concretizzare aspirazioni, sogni, speranze, attese, ambizioni, e la storia ripeteva che la nostra unica possibilità era quella di perseguire la logica antagonista: rompere gli schemi e ingarbugliare le carte.
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